sabato 31 ottobre 2009

GIOVANE MAMMA AL MERCATO

mamma al mercato con figlioletta appesa...

venerdì 30 ottobre 2009

LA CONSEGNA SBAGLIATA


- Mademoiselle Mérot, lei è proprio un’inetta!

Il caporeparto continuava a girare nervosamente per l’ufficio, sigaretta in bocca, avvolto in una nuvola di fumo e con le mani giunte dietro la schiena.

- Come si fa? Come è possibile commettere un errore del genere!

Continuava a sbraitare, senza rivolgerle lo sguardo, mentre lei nel frattempo si era fatta piccola piccola nella sua sedia e non osava nemmeno fiatare. Aveva gli occhi pieni di lacrime e sapeva che i rimproveri del suo superiore, per quanto duri e anche privi di rispetto, erano dopo tutto meritati: l’aveva proprio combinata grossa!

- Comunque questa storia non finisce qui. Sappia che ho informato il Direttore in persona e credo che oggi stesso lei verrà chiamata di sotto a parlare con lui.

- D’accordo Monsieur Palais, come vuole lei, mi rendo conto che…

- Lei si rende conto? No! Lei non si rende conto proprio di un bel niente! Neanche si immagina le conseguenze che il suo errore comporterà. Una consegna in ritardo è un conto, insomma può capitare in una grande città come questa, ma una consegna errata no. Uno scambio di persona è davvero troppo!

- Mi scusi, non ho parole, davvero io… io…

Per l’ennesima volta in quel giorno si ritrovò a piangere lacrime più amare del fiele, figlie di una disperazione genuina e sentita, di un errore al quale non avrebbe più potuto porre rimedio. E mentre piangeva si domandava ancora una volta come aveva potuto essere stata tanto sprovveduta.

Era convinta, tuttavia, che in pochissimi o forse addirittura nessuno dei suoi colleghi poteva realmente capire la sua posizione. Il suo era un lavoro duro, ricco si di soddisfazioni ma di grande responsabilità e nel quale non si poteva sbagliare mai. Il fatto che ora si trovasse chiamata a rapporto nell’ufficio di Monsieur Palais, per aver commesso il primo errore da quando era arrivata, ne era la prova tangibile.

- Le statistiche! Le statistiche di questo reparto ormai sono andate a puttane! Guardi questo tabulato: il suo è il primo errore dal 2001. Una media di 2,000 consegne mensili negli ultimi cinque anni. Ventinovemilacinquecentotrentasei consegne solo lo scorso anno. Otto anni che non si commetteva un errore! Il nostro dipartimento è, anzi ora grazie a lei “era” il fiore all’occhiello di tutta la dannata baracca!

Palais era un fiume in piena che la stava ormai travolgendo. Non cercava neanche di controbattere poiché si rendeva conto che il suo capo era in preda ad un attacco isterico, se non fosse che l’isterismo è una patologia prettamente femminile. E mentre faceva questo pensiero si fece scappare un mezzo sorriso che per fortuna passò inosservato al suo superiore, che le voltava le spalle, immerso nei suoi tabulati.

In quell’istante si aprì la porta ed entrò la segretaria di Palais

- Signore, ho l’ufficio del Direttore in linea: mi dicono che vuole parlare con Mademoiselle Mérot.

A quelle parole le si gelò il sangue nelle vene. Palais non scherzava: quel maiale aveva davvero fatto rapporto al grande capo, che di li a poco l’avrebbe ricevuta a colloquio per la prima volta.

- Bene bene! Vada signorina, vada e… buona fortuna!

Disse con un ché di malvagità mentre sogghignava sotto i baffi, la fronte imperlata di sudore e tutto paonazzo per lo sforzo di trattenersi.

“Che stronzo” penso tra sé e sé alzandosi ed uscendo dal quell’ufficio.

L’ascensore scendeva fin troppo velocemente; lei teneva gli occhi puntati sul display, cercando di visualizzare gli uffici che si trovavano ai vari piani che passava ed i colleghi che vi lavoravano. In effetti non è che conoscesse molta gente, malgrado quasi due anni di servizio, ma d’altro canto andava sempre di fretta e passava la maggior parte del suo tempo in città, tra una consegna e l’altra, per tornare in ufficio solo in tarda serata a riempire i moduli per il Controllo Qualità, prima di tornare a casa.

Poi il suo pensiero andò al Grande Capo. Ricordava di averlo incrociato in una sola occasione, circa un anno prima, accanto alla Reception. L’incontro, per quanto fugace, era stato a dir poco imbarazzante. Lei come al solito andava di fretta poiché quel giorno aveva molte consegne e poco prima di uscire dalla sede era dovuta correre nel bagno accanto alla Reception per un impellente bisogno dell’ultimo momento.

Uscendo dal bagno si era quasi scontrata con un uomo, alto circa dieci centimetri più di lei (e sì che lei era 1.75 senza tacchi), brizzolato, di bell’aspetto, elegantissimo e con uno sguardo così profondo che la fece sentire quasi nuda. Dopo un attimo di esitazione si rese conto che nella fretta aveva dimenticato di tirare su la zip dei pantaloni, lasciando intravedere il suo slip di raso nero, ed era proprio quello che lo sconosciuto stava fissando, con evidente desiderio! Lei lo aveva fulminato con gli occhi, per quanto la sua debole posizione glie lo consentisse, ed era sfilata sulla destra, diretta verso l’uscita. Una folta fuori dall’edificio si era voltata indietro, accorgendosi che l’uomo la stava ancora guardando, con un sorriso divertito stampato sulla faccia che non si preoccupava neanche di nascondere.

Solo qualche settimana più tardi, sfogliando un rivista del settore, riconobbe nel suo avventore il Direttore Generale della società, Monsieur Jean Violado, di chiare origini spagnole (aveva letto che la madre era di Siviglia) ma cresciuto nel sud della Francia e trasferitosi a Parigi da diversi anni.

Le porte dell’ascensore si aprirono e l’impeccabile fattorino la indirizzò verso la scrivania della segretaria del capo, che la stava già attendendo con impazienza.

- Mademoiselle Mérot, suppongo.

- Si, sono io

- Presto, il Direttore la sta aspettando.

Cominciò a sentirsi le gambe molli, sudava abbondantemente ed aveva la gola secca. Si fece forza ed entrò oltre la porta che la segretaria aveva aperto per lei, indicandole la strada con un chiaro gesto del braccio.

Entrata nell’ufficio, fu accolta da una luce tenue e soffusa, una strana melodia in sottofondo aumentava la sua agitazione interiore. Un intenso odore di fumo di sigaro arrivò alle sue narici. La sala era, neanche a dirlo, enorme ed impeccabile. Non era un’esperta di arte ma da una rapida occhiata alle pareti rivestite in mogano le sembrò di scorgere un Caravaggio. La scrivania aveva un enorme piano in cristallo, molti fogli sparsi, una stilografica Montblanc in oro massiccio che Violado usava per firmare i suoi contratti e l’interfono per comunicare con la segretaria.

La poltrona di pelle era rivolta con lo schienale verso la porta, e dalla spalliera si alzavano copiose volute di fumo; l’uomo fece roteare lentamente la poltrona e le si rivelò tenendo nella sinistra un cubano e nella destra un bicchiere di brandy.

- Salve Mademoiselle Mérot, si accomodi pure.

- Buongiorno Signor Direttore, grazie.

Avanzò con passo incerto e si sedette in punta ad una delle due eleganti sedie per gli ospiti. Decise di prendere la parola ed esordì, per la verità un po’ incerta.

- Ehm, Signore, non trovo le parole per esprimerle il mio dispiacere per l’errore che ho commesso. So che è una cosa imperdonabile e non ho giustificazioni. Sono pronta ad assumermi tutta la responsabilità di quanto è avvenuto ed a pagarne le conseguenze. Monsieur Palais mi ha spiegato che…

- Ah, Palais. Sono sicuro che le avrà sciorinato la storia delle statistiche, del fatto che abbiamo un record di consegne eseguite con successo che è praticamente imbattuto da non so quanti anni, e via dicendo.

- Ehm, veramente è proprio così

Violado si mostrò accondiscendente.

- Senta signorina, mi spieghi come è andata ieri, le va?

- Certo Signor Direttore.

Ripercorse con la mente i fatti del giorno prima e li espose il più chiaramente possibile al suo capo.

- Ieri dovevo effettuare 18 consegne; a dire il vero ero già un po’ in ritardo e per di più dovevo muovermi con i mezzi pubblici poiché il mio scooter è in officina per la revisione. A metà mattinata avevo fatto solo 4 consegne e all’ora di pranzo, che ho saltato completamente, ero arrivata a quota 7. Come se non bastasse, avevo perduto nel metrò il foglio con la scaletta delle consegne ed avevo continuato per quasi tutto il giorno a saltare da un parte all’altra della città, maledicendomi per la mia stupidità.

- Insomma, una giornata nata male e finita peggio

Intervenne il direttore, che sembrava divertito da quell’inaspettato racconto ricco di particolari

- Proprio così. Per giunta mi ero accorta che le ultime due consegne erano praticamente dalla parte opposta della città. Dovevo farne una a Rue de la Convention e l’ultima al parco della Villette.

- Come, proprio nel parco?

- Si Signor Direttore, l’ultima era esattamente nel parco alle 18:35 sotto la Géode.

- Capisco.

- Sono arrivata in Rue de la Convention alle 17:58. La consegna era fissata per le 17:51 ed ero già in ritardo di sette minuti. Il destinatario era un certo Monsieur Alexandre Perche, al numero 122.

- Si si, conosco quella zona: c’è un ottimo ristorantino sull’angolo con via Bocquillon.

- Esatto, il B121. Bene, l’ingresso del 122 è dall’altra parte della strada, tra una piccola boutique per la ricostruzione delle unghie ed un grande negozio di fiori.

- Monceau Fleurs, se non erro.

- Per l’appunto.

Era ammirata per la conoscenza che il Direttore Violado aveva non solo delle vie, ma persino dei negozi di quella enorme città. Tuttavia ripensando alla fama di dongiovanni che aveva l’importante uomo seduto di fronte a lei, trovò naturale che lui sapesse dove poter comprare dei fiori per una bella signora e dove poterla invitare a cena per stupirla con un piatto di escargot alla bourguignonne ed un calice di Chateau Latour.

- Sono arrivata di corsa, sul citofono ho rintracciato il nome Perche, e ho visto che abitavano al quinto piano. Ho imboccato l’ingresso e mi sono accorta che non c’era ascensore! Ormai non avevo neanche più voglia di imprecare, e mentre salivo le scale a due a due ho ricontrollato velocemente il nome del destinatario sul “delivery slip”. Arrivata al quinto piano, ho suonato il campanello dei Perche ed ho cercato di riprendere fiato. Con sorpresa mi ha aperto un bimbo di sette o otto anni. Questa cosa mi ha presa un po’ alla sprovvista. Gli ho chiesto se ci fosse il papà in casa e lui mi ha risposto che era solo con il nonno; poi è sparito lasciandomi sull’uscio ed ho sentito che correva in corridoio chiamando il nonno.

- Continui, la prego

Il Direttore era davvero interessato dal racconto degli avvenimenti del giorno prima. Si alzò ed andò al mobile bar; prese una bottiglia di cristallo e si versò dell’altro liquore.

- Quando l’uomo è comparso gli ho chiesto se fosse Alexandre Perche. Mi ha risposto di si, così mi sono presentata ed ho effettuato la consegna, per la verità anche in maniera un po’ brusca, ma date le circostante non sono stata a badare ai convenevoli. Erano esattamente le 18:04. Una volta in strada, mi sono diretta di corsa verso la fermata Bouciacut della linea 8, poi ho cambiato all’Opera ed ho preso la linea 7 fino a Corentin Cariou, da dove mi sono precipitata al mio ultimo incontro. Sono riuscita ad arrivare quasi in orario, ehm veramente con un paio di minuti di ritardo, ma ho comunque potuto effettuare anche l’ultima consegna. Dopodiché ho ripreso la metro fino in ufficio, ho riempito come al solito il delivery report con le generalità dei destinatari e sono andata a casa. Stamattina appena ho messo piede in ufficio, Monsieur Palais mi ha aggredi… ehm… riferito che avevo sbagliato persona.

Violado la scrutava dalla testa ai piedi con estrema attenzione, i gomiti poggiati sui braccioli della poltrona e le gambe accavallate.

- Sa, devo dirle che quando mi hanno informato dell’accaduto (e guardi che io l’ho saputo prima di lei, stanotte all’una e mezza) mi sono un po’…ehm… arrabbiato, se mi passa il termine. Tuttavia ora che mi ha spiegato come sono andati i fatti, considerando tutte le difficoltà del caso e la peculiarità delle circostanze, non da ultimo il caso di omonimia tra i due potenziali destinatari…

- In effetti Signor Direttore, se posso permettermi, è stato tutto l’insieme di circostanze che ha causato il mio imperdonabile errore. Il fatto che fossi in ritardo ed in affanno mi ha distratta. Se almeno avessi controllato l’età del destinatario, oltre che il nome, non avrei avuto dubbi; ma come potevo immaginare che si trattasse proprio del nipote? Voglio dire, è un bimbo di otto anni al massimo.

L’uomo si sporse verso di lei, fissandola negli occhi. Poi le rivolse queste parole, parlando lentamente e a voce bassa.

- Senta Madeomoiselle Mérot, entrambi sappiamo che il suo lavoro è duro e non permette distrazioni, entrambi sappiamo che le conseguenze di un errore come quello che lei ha commesso ieri sono gravi e penose per molti (e non mi riferisco a quel topo da biblioteca di Palais, la sù…), ma come dico sempre “chi mangia fa briciole”. Io sono una persona ragionevole e sono sicuro che lei ha capito di aver commesso una… leggerezza, chiamiamola così. Quindi ritengo di poter in qualche modo sistemare questa faccenda.

- Ohhh, grazie mille Signor Violado, lei non sa quanto le sono riconoscente.

- Magari in cambio lei potrebbe accettare un mio invito a cena, diciamo stasera?

Quella sfacciataggine la indispettiva e la fece arrossire, ma ormai non aveva alternative.

- Ehm..certo Signore, con piacere.

Si alzò e si diresse verso la porta, seguita a breve distanza dal suo Direttore Generale. Arrivata alla porta afferrò il pomello ma non lo fece ruotare. Prima di andar via aveva un’ultima domanda da rivolgere a Violado.

- Signore mi perdoni. Ma come la mettiamo con le persone che ho confuso?

L’uomo rispose con un inconfondibile scintillio negli occhi di un giallo quasi fosforescente.

- Non si preoccupi. Il vecchio era comunque in lista d'attesa, avrebbe dovuto incontrarlo tra tre mesi: diciamo che si è... avvantaggiata nel lavoro. Quanto al vero destinatario della sua "consegna", il piccolo Alexandre Perche, ho già fatto sistemare la pratica dal mio fattorino personale. Vede, il bimbo purtroppo la scorsa notte è rimasto strangolato da una delle sue biglie di vetro.

giovedì 29 ottobre 2009

IL BAOBAB




Il nome "baobab" significa "albero di mille anni" (riferito alla leggendaria longevità della piante).
Sono alberi con grandi fusti, che raggiungono altezze tra i 5 e i 25 m (eccezionalmente 30 m); il diametro del tronco può raggiungere i 7 m (eccezionalmente 11 m). Sono famosi per la loro capacità d'immagazzinamento d'acqua all'interno del tronco rigonfio, che riesce a contenere fino 120.000 litri d'acqua per resistere alle dure condizioni di siccità di alcune regioni. I rami, disposti a raggiera alla sommità dei tronchi, sono del tutto spogli durante la stagione secca. La chioma si riempie per pochi mesi all'anno di foglie palmate. Nell'epoca, limitata, della fioritura esibiscono grandi fiori molto odorosi, che si schiudono la notte. Producono grandi frutti ovoidali.

SCELTE


Leo cominciava a sentire freddo. Un freddo di quelli che ti penetra nei vestiti, ti entra sotto la pelle e ti arriva dritto dritto alle ossa.

Camminava in direzione Nord lungo l’Heren-gracth ed era diretto al cuore dello Jordaan, il quartiere periferico di Amsterdam. Suo cugino Niels gli aveva detto più volte –si scrivevano da oltre un anno- che a gennaio quella città era quasi invivibile per il clima rigido: del resto loro venivano da una piccola cittadina in pianura nel Sud del Paese, con estati corte e inverni miti.

Era la seconda volta che Leo andava ad Amsterdam; la prima c’era stato in occasione della gita di fine corso, quando aveva sedici anni.

Ora si trovava li, in visita a Niels che aveva avuto uno stupido incidente alla pista di pattinaggio e non poteva uscire di casa, avendo la gamba sinistra ingessata.

Leo aveva deciso che quella sarebbe stata un’occasione per tornare nella capitale e soprattutto rivedere il cugino dopo quasi due anni.

Imboccò un vicolo buio e proseguì per un po’: era sicuro che la pensioncina dove avrebbe alloggiato fosse proprio lì… magari un po’ più avanti.

Non aveva voluto restare da Niels, preferendo una topaia da 300 Guilden a notte, per un suo senso d’orgoglio che non era stato mai capito da nessuno. Ma Leo era fatto così e non sarebbe certo cambiato: forse perché a lui non avrebbe fatto piacere avere ospiti tra i piedi, o forse perché voleva mostrare di non dipendere dagli altri. Fatto sta che ogni qual volta poteva, preferiva arrangiarsi da solo. Ed in fin dei conti ognuno è libero di fare le sue scelte, no?

Aveva ormai percorso più di cento metri, quando dovette rassegnarsi al fatto che aveva sbagliato strada: della sua dannata pensione non c’era nemmeno traccia. Anzi, non c’era traccia nemmeno di caseggiati abitati: doveva essersi infilato in un vicolo di magazzini e depositi.

Era mezzanotte ed il vento continuava a segargli le gambe; si abbottonò bene il giaccone marinaro sperando di trattenervi dentro qualche grado di calore in più. Forse tornare indietro era l’unica soluzione: voltò sui tacchi ed andò a sbattere il naso contro un muro che due secondi prima non c’era.

- Fermo qua, figlio di puttana!

Alzò lo sguardo e ciò che vide non gli piacque neanche un po’: il bestione che aveva davanti era più nero di quella notte nera e più alto dell’Everest. Nella destra stringeva un coltello da cucina che gli teneva puntato all’altezza dell’addome.

Leo si meravigliò degli strani scherzi che gioca la mente umana: in una situazione così assurda l’unica cosa cui riusciva a pensare era che quel coltello era identico a quello adoperato da suo cugino Niels per tagliare la carne che avevano mangiato come seconda portata, a cena.

- Bastardo campagnolo del cazzo: adesso mi dai tutti i soldi che hai! E pure l’orologio, capito?!

La montagna che aveva di fronte lo spingeva verso il muro: voleva metterlo alle corde per spremerlo a dovere. Leo, con i suoi centosessantotto centimetri per sessantadue chili, non poteva certo opporre resistenza.

E mentre indietreggiava ripensava alla cena che suo cugino gli aveva preparato: Niels aveva sempre avuto la passione per la cucina italiana. Sosteneva che un piatto di bucatini all’amatriciana fosse meglio di un amplesso. Leo non poteva dirsi d’accordo al cento per cento, ma quando si era alzato da tavola non aveva avuto il benché minimo stimolo sessuale…

- Ehi, testa di cazzo di un contadino! Hai capito o no quello che ti ho detto?

- Ho capito, non ti scaldare: farò quello che vuoi, ma non fare cazzate.

Leo non aveva nessuna intenzione di farsi infilzare per pochi Guilden e per un fottuto Swatch Irony. Era deciso a collaborare col suo assalitore e a tornarsene alla sua pensione al più presto. Aveva bevuto troppo e non avrebbe resistito ancora a lungo a quel dannato freddo.

Non sapeva se ringraziare Niels o se mandarlo a fare in culo per le tre bottiglie di Montepulciano che aveva stappato per annaffiare pasta prima e carne poi…

Scelse la prima alternativa, se non altro perché stava tenendo testa, o quasi, a quel tipo e non si era ancora cagato addosso.

- Allora, ti decidi o no?

Disse il nero punzecchiandolo e staccando un bottone del suo giaccone.

Leo tirò fuori il portafogli, lo aprì e ne consegnò il contenuto al suo assalitore.

Mentre compiva meccanicamente questo gesto ripensava al dopocena: si era seduto nel microscopico salotto dell’appartamento che il cugino divideva con un tizio norvegese e tra un grappino, rigorosamente veneto, ed un altro si era fatto raccontare le circostanze dell’incidente.

Aveva così appreso che Niels stava facendo il bullo con una biondina che avrà avuto al massimo quindici anni ed era inciampato in un guanto, cadendo male e rompendosi la tibia.

Poi il cugino gli aveva parlato di come si manteneva nella capitale e del giro in cui era entrato: un mondo pericoloso, duro e senza gratifica di fine mese, ma in fondo aveva sempre desiderato vivere ad Amsterdam e quella era stata la sua scelta.

- Forse non ci siamo capiti, nanerottolo! Voglio il tuo orologio, e già che ci sei svuota anche le tasche!

Quel bastardo non pareva mai accontentarsi. Leo era un tipo pacifico, uno che evitava la rissa (anche e soprattutto per via della sua stazza) e che girava a largo dai guai. Ora si ritrovava in una situazione che definire di merda era un eufemismo. Cominciava a pentirsi di non avere accettato l’invito di Niels a passare la notte da lui. Per strada neanche un cane. E se quel verme non si fosse accontentato dei suoi averi? Sentì in bocca il sapore amaro della paura: temeva che di li a poco avrebbe rivisto il vino italiano che aveva ingurgitato zampillargli da due o tre fori nella pancia.

- Dai, muoviti stronzo!

- Ok, Ok, come vuoi tu...

Rispose cercando di ostentare una calma che non aveva più.

Prima di congedarlo, suo cugino lo aveva chiamato vicino a sé, aveva aperto il cassetto della scrivania e gli aveva detto:

- Sai che Amsterdam non è come il tuo paesello; qui è pieno di spacciatori, ladri ed ogni sorta di figli di puttana. Se proprio non vuoi dormire qui, fammi un favore personale: prendi questa, me la ridarai domani.

Ed aveva posato sul tavolo Walther PPK con un caricatore pieno.

Leo era rimasto interdetto e perplesso:

- Un’arma da fuoco?! ma cosa diavolo vuoi che me ne faccia di una pistola?

- Ovvio, ci giri lo zucchero nel cappuccino, no?

Aveva risposto sarcastico Niels (questa in realtà era una sua prerogativa che aveva sempre mandato Leo su tutte le furie).

- No no, senti Niels… ti ringrazio ma non se ne parla nemmeno. E poi non saprei neppure come usarla, va a finire che mi faccio male da solo. Buonanotte Niels: grazie della cena e riguardati.

E così dicendo si voltò ed aprì la porta di ingresso.

Leo slacciò lentamente il cinturino e consegnò lo Swatch al suo aggressore.

-Forza, voglio tutto quello che hai in tasca, svelto!

-Ho detto Ok, alla fine è una tua scelta…

Niels lo trattenne per un braccio e fissandolo negli occhi gli disse a voce bassa, scandendo le parole lentamente

- Senti Cuor di Leone, te lo chiedo per favore, fammi dormire tranquillo ok? Questo è un quartieraccio: vai dritto dritto nel tuo cesso di hotel e dimentica che ce l’hai addosso. Ma se sei in pericolo lascia che lei ti protegga.

E gli cacciò la pistola in fondo alla tasca del giaccone.

mercoledì 28 ottobre 2009

IL BAGNETTO



Questa è la foto della settimana: ma quanto è bello 'sto bambino?

martedì 27 ottobre 2009

SILVER RING

- Cazzo! ma ti rendi conto? Ci saranno almeno venti colazioni tra cui scegliere!

- E dai, non cambiare discorso, porca troia; e poi dai un’occhiata anche all’altra colonna…

Louis era seduto di fronte a Tom, gli occhi puntati sul menu e un’espressione accigliata. Ce l’aveva con il fratello, che lo aveva voluto portare in quel posto assurdo.

- Cosa?

- I prezzi, Cristo: quindici dollari per un piatto di pan cakes!

Non che non potessero permetterselo, ma Louis aveva fatto ben altri progetti su come spendere i loro soldi. Al bar del college aveva sentito i ragazzi dell’ultimo anno che parlavano dei night club di China Town, dove al costo di poco più di due piatti di fottute frittelle con sciroppo d’acero avrebbero potuto spassarsela con una ragazzina orientale per un’ora.

Non riusciva ancora a capacitarsi di come aveva potuto farsi convincere dal fratello a viaggiare fin lì in treno. Aveva dolore alla schiena per aver dormito in quelle cuccette troppo piccole. Ed era ancora più stupito dal fatto che Tom non si lamentasse affatto di quel viaggio allucinante (erano alti tutti e due più di un metro e novanta) anzi ne sembrava uscito rinvigorito.

Incalzò ancora il fratello:

- … allora ti decidi o devo tagliarti il dito?

- Ma si può sapere che vuoi?

- Ho detto, ti decidi a toglierti quel cazzo di anello?

- Ancora con questa storia? Ti ho detto che non me lo tolgo fin quando…

- Fin quando cosa? Dove cazzo credi che stiamo ora? Vedi delle hostess per caso?

- E dai, non rompere…

Ora Louis cominciava ad essere davvero seccato dalla cocciutaggine del fratello; forse questo era uno dei pochi aspetti in cui erano davvero dissimili. Per il resto non sarebbe stato facile distinguerli nemmeno a studiarli con la lente d’ingrandimento. Erano praticamente identici; lo erano stati fin dalla loro infanzia.

Non che a Louis non facesse piacere: il fatto di avere un fratello gemello come Tom aveva portato ad entrambi più vantaggi che problemi. Soprattutto si compiaceva del fatto che poteva scoparsi le ragazze che Tom rimorchiava e doveva studiare solo la metà delle materie scolastiche: tutto ciò, naturalmente, valeva anche per il gemello.

Ma ora Louis era dispiaciuto e risentito poiché stava scoprendo un aspetto nuovo di Tom: era superstizioso!

Quando il cameriere venne a prendere le ordinazioni non credeva ai suoi occhi: gli sembrava che qualcuno avesse piazzato uno specchio proprio al centro del tavolo; non sapeva quale fosse il cliente in carne ed ossa e quale l’immagine riflessa.

Louis e Tom non avevano deciso ancora cosa prendere. Chiesero due caffè e del succo d’arancia a quel buffo ragazzotto dall’aria stralunata, chiuso in un’uniforme troppo piccola per lui, che continuava a far rimbalzare le orbite dall’uno all’altro, come se stesse seguendo una partita di tennis.

Quando finalmente il cameriere si allontanò, Louis tornò all’attacco del fratello, deciso ad arrivare a fondo a quella merdosa faccenda.

- Adesso sono stufo, cazzo. Ma ti rendi conto dell’assurdità di questa storia? Cristo, lo sai il casino che ho dovuto piantare per farci dare cinque giorni di riposo subito prima dell’inizio della nuova stagione? Il coach era incazzato come una vipera: continuava a sbraitare che non potevamo assentarci tutti e due insieme; non so come si e’ bevuto la storia di nostra nonna ricoverata, ma di certo dubita fortemente che abbiamo parenti in questa città.

- Me ne fotto di quello che pensa il coach. Lo sanno tutti che l’anno scorso i Raiders hanno vinto il titolo grazie a noi due: avevamo diritto a questa vacanza!

Tom adesso cominciava a scaldarsi e questo rese Louis ancora più furioso.

- Ma porca troia! E’ quello che dico anche io! Riusciamo ad avere cinque giorni off e tu che fai? Ne sprechi due per andare e tornare in treno anziché in aereo solo perché quella vecchia puttana di chiromante ti fa una “profezia”?

Louis si rese conto che aveva alzato troppo la voce: i clienti dei tavoli accanto avevano smesso di mangiare e li stavano fissando con facce indignate.

I gemelli usarono immediatamente ed in perfetta sincronia la loro arma segreta: con aria innocente regalarono a tutti uno dei loro accattivanti sorrisi a trentadue denti. Tanto bastò per riportare la situazione alla normalità.

Poi Tom si rivolse al fratello con aria più tranquilla e con un tono alquanto persuasivo. Disse:

- Senti Louis, sò che tu non credi a queste cose, ma ti prego: non farmela pesare più di tanto. D’altra parte siamo già qui. Lo so, saremmo potuti arrivare ieri se avessimo viaggiato in aereo, ma non me la sono proprio sentita. Cristo tu non c’eri nel suo tendone: avresti dovuto vedere i suoi occhi. Erano sinceramente pieni di terrore quando ha letto la mia mano.

Louis non voleva rassegnarsi. Era incazzato con se stesso per aver seguito Tom in quel viaggio in treno. E la sua stizza cresceva se ripensava alla notte insonne, all’arrivo alla Gran Central Station alle cinque e trenta, alla breve passeggiata in Central Park, a quell’ora popolato solo da barboni e cani randagi, alla sciocca idea del gemello di andare a far colazione in uno dei ristoranti più costosi di quell’incredibile isola.

- Si, me l’avrai raccontato cento volte. Io ho accettato di venire nella Grande Mela in treno, ma ora siamo qui, sani e salvi. Ho fame e vorrei ordinare. E voglio che ti tolga quel dannato anello dal dito.

- Ma non hai capito? La veggente ha detto che fin quando lo porto indosso non avrò nulla da temere. Ascolta Louis, ti sei chiesto come faceva a sapere che ho un gemello? Quella sera tu eri sulla ruota panoramica con Cindy, dall’altra parte del Luna Park. Io sono entrato subito nel tendone della veggente, e sono certo che lei non ti ha visto. Ricordo ancora le sue parole: ha detto che vedeva due gemelli in una grande città, vedeva un immane incidente aereo, vedeva morte e distruzione…

Louis non ce la faceva proprio più:

- Si, e Mickey Mouse non lo vedeva? Cazzo Tom! Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Sturati le orecchie ora. Me ne frego di quel che dice la tua fottutissima Cassandra; l’epoca delle streghe è finita da un pezzo: è l’undici settembre del duemilauno; siamo nella fottuta Manhattan, nel fottutissimo ristorante del centosettesimo piano dello strafottutissimo World Trade Center. Ho fame e vorrei mangiare un chilo di bacon con uova. Ma prima devi toglierti quell’anello, altrimenti ti giuro che te lo strappo insieme alla mano!

Tom si arrese solo dopo aver scrutato a fondo lo sguardo fermo e deciso di Louis. Faticò a sfilarsi l’anello: non era abituato a portarne ed il dito mignolo gli si era leggermente gonfiato.

Fu forse per quello sforzo che non si accorse di un sibilo che diventava sempre più forte ed acuto.

- Ecco fatto.

Disse, poggiando l’anello sulla tovaglia.

- Sarai contento ora, testone! Ehi, Louis?

Ma Louis non lo stava neanche ascoltando: come tutti gli altri clienti del ristorante stava guardando fuori dalle enormi vetrate, e nei suoi occhi l’orrore era misto all’incredulità.

Quattro settimane dopo, il piccolo Jack, figlio del vice-capo dei vigili del fuoco del dipartimento di New York, ottenne il permesso di andare con il padre per l’ormai consueta visita di sopralluogo alle rovine delle torri gemelle. Il pericolo di altri crolli era ormai scongiurato e d’altra parte le zone ancora pericolanti erano ben circondate da cordoni di sicurezza della polizia e della guardia nazionale.

Jack aveva solo sei anni e sembrava quasi divertito dal persistente sgomento degli adulti, quando si avvicinavano nel luogo dove era sorto il World Trade Center, ribattezzato con l’ormai tristemente famoso appellativo di “Ground Zero”. Del resto lui non si era ancora abituato a vedere le torri stagliarsi a quattrocentocinquanta metri di altezza, né aveva mai inviato a parenti o amici cartoline dello Skyline di New York.

Rimase ad aspettare il papà due passi fuori dai nastri gialli vigilati da poliziotti, che a Jack dovevano sembrare alti proprio come le torri scomparse.

Mentre con lo sguardo seguiva il padre che andava a parlare con un buffo omino in giacca e cravatta, con il viso coperto da una mascherina bianca, la sua attenzione fu attratta da uno scintillio a pochi metri da lui. L’enorme poliziotto gli voltava le spalle. Con l’agilità derivante dai suoi sei anni, si infilò sotto una trave d’acciaio alta almeno quanto lui e si chinò a raccogliere quello strano oggetto, cacciandoselo in tasca senza neanche vedere cosa fosse. Poi corse di nuovo in macchina, dove pochi minuti più tardi fu raggiunto dal padre.

Era contento di tornare a casa per due motivi. In primo luogo erano bastati pochi secondi fuori dall’auto per fargli venire la nausea: quella puzza dolciastra e pungente era davvero insopportabile. Inoltre aveva trovato un piccolo tesoro. Era sicuro che una volta che avesse lavato e ripulito bene quel cerchietto d’argento avrebbe potuto regalarlo al suo gemello Kevin.